Buchanan

31 Gen

Il 9 gennaio 2013 si è spento James Buchanan, uno dei più grandi economisti del XX secolo, fondatore della scuola della public choice e Premio Nobel per l’economia nel 1986.

In quella che viene universalmente considerata la sua opera più importante, Il Calcolo del Consenso, fondamenti logici della democrazia costituzionale, Buchanan elabora la teoria della scelta pubblica in economia e scienza politica, concentrando la sua analisi sulle dinamiche di organizzazione politica di una società libera.
Pubblicato nel 1958, e scritto con la collaborazione di Gordon Tullock, Il calcolo del consenso si impose, già nell’approccio metodologico, come un testo rivoluzionario; per la prima volta, lo studio delle dinamiche di relazione dei soggetti che operano in ambito politico venne condotta esclusivamente attraverso gli strumenti propri della scienza economica, estromettendo di fatto qualsivoglia criterio sociologico e di scienza sociale classicamente intesa.
Tale prospettiva fornì Buchanan degli strumenti necessari a condurre un’analisi positiva, focalizzata cioè sulle dinamiche che effettivamente orientano le scelte politiche, e non, come prassi aveva suggerito fino a quel momento, su come quelle stesse dinamiche avrebbero dovuto o potuto determinarsi.

In tempi confusi come questi, in cui l’adesione a dottrine economiche opposte tra loro (quando non contraddittorie o strampalate in se) sembra rispondere più a logiche esoteriche e parafideistiche che non a criteri scientifico-economici, ripercorrere, anche solo per sommi capi, i punti chiave della Public Choice, rappresenta un formidabile rimedio contro imposture d’ogni ordine, grado e provenienza.

L’ispirazione fondamentale, che Buchanan prese da Wicksell, è che “gli economisti dovrebbero piantarla di offrire consigli di policy come se si rivolgessero ad un despota benevolo, e dovrebbero invece analizzare la struttura in cui le decisioni politiche vengono prese”.
In altri termini, la teoria della scelta pubblica rifiuta il principio, indimostrabile per ontologia, secondo cui gli uomini politici d’ogni livello possano esser considerati come “benevoli monarchi illuminati”, e che tali amorevoli demiurghi si prefiggano, come missione, il conseguimento dell’interesse collettivo.

Gli agenti politici compiono scelte di carattere economico volte al conseguimento dei propri interessi e alla soddisfazione dei propri bisogni, mentre l’interesse pubblico è e resta pur sempre l’interesse privato di gruppi qualificati.
Ne è logica conseguenza che “gli elettori sosterranno candidati e proposte politiche che pensano possano realizzare il loro interesse personale, i politici cercheranno di essere eletti o rieletti a cariche pubbliche, i burocrati si sforzeranno di favorire la propria carriera”.

L’humus in cui si sviluppa il pensiero di Buchanan è, evidentemente, quello dell’individualismo metodologico dei neoclassici, declinato però in una prospettiva normativa che non può che definirsi morale; un approccio sensibile ai temi dell’etica, delle differenti concezioni di giustizia e diritto, che pone l’accento sull’importanza ineluttabile delle regole del gioco, ritenendo che gli attori della sfera politica siano mossi essenzialmente da propositi di massimizzazione dell’utilità.

Che siano, insomma, attori razionali guidati da interessi egoistici.

L’economia di Buchanan è dunque una scienza umana – umanistica? – che diffida della matemazzitazione della disciplina e delle sue contrapposte ortodossie teoriche, dei modelli di equilibrio generale e delle misteriose definizioni degli agenti economici.

Certo, lasciare che le teorie economiche di Buchanan ed il “vorrei volere” agostiniano si sfiorino è operazione ardita; un canone che, nei rimandi delle sottrazioni e delle aggiunte, si fa rischioso.
Forse è solo un volo pindarico sottilmente degenerato, l’espressione di un pensiero debole che finisce inevitabilmente per presupporre il Pantheon, per desiderarlo già nell’istante stesso in cui lo pensa, in forma e nelle modalità del più spericolato spirito postmododernista.

O, più probabilmente, è soltanto la riproposizione di un inestirpabile vizio del nostro tempo, ingenuo ed umanissimo; quello di non rassegnarci, come occidentali, ad una prospettiva orizzontale dell’esistenza, di non rinunciare alla messa in mora d’ogni relativismo, di non riuscire, insomma, a chiudere davvero i conti con la morte della metafisica e la conseguente nascita della contemporaneità.

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