Piccoli leader crescono

11 Feb

Ladies and Gentlemen, eccola: ineluttabile ed eternamente identica a se stessa come ogni tradizione che si rispetti, l’aspirazione monocellulare dei partiti che compongono la sinistra italiana s’aggira nuovamente tra noi.

Anche quest’anno, all’approssimarsi del voto, l’eterno ritorno di questo multiforme, corpuscolare, partenogenetico insieme di anime riprende vita; anime immancabilmente inconciliabili, anime categoriche, inamovibili, intransigenti e monolitiche nelle loro impalpabili differenze – e tuttavia, ad ascoltare questi titolatissimi portavoce che le rappresentano e incarnano, anime indispensabili, di più, anime preziose, arricchenti, financo decisive per il futuro e la felicità di noi improvvidi mortali.
Sia detto per inciso, su questa coazione a ripetere, che sintetizza tempismo suicida e autismo da rilevazione demoscopia, dovrebbero cominciare a interrogarsi autorevoli esponenti della scuola lacaniana.

Niki Vendola, cresciuto politicamente in grembo al settarismo bertinottiano, e per anni autorevole esponente di quella ortodossia inflessibile che consegnò già una volta l’Italia al mastino di Baskerville, fornisce, di questa disgregazione, una peculiare ed originalissima spiegazione di carattere storico-antropologico.
Segue lectio.

“C’é una brutta storia nella sinistra: un riverbero dello stalinismo, che cercava i nemici tra quelli che ti sono più vicini. Io non ho alcun sentimento negativo nei confronti di Ingroia, Di Pietro, Ferrero, Bonelli…[…] non ho nessuna voglia di vivere questa campagna elettorale come un ping pong polemico nei loro confronti”.

Ora, tralasciando lo stalinismo, i riverberi, il ping pong, e tutto l’armamentario voluttuario della retorica vendoliana, resta il fatto che a quelle latitudini continuano a volare stracci con cadenza giornaliera.
Il punto, comunque, è un altro: se si prova a sbirciare davvero dentro questi partiti-monade, dentro questi manualetti mal redatti di etica nicomachea, salta immediatamente all’occhio che, tra la purezza delle premesse e la compilazione delle liste elettorali, non tutti i conti tornano.

Tanto per dirne una, Rivoluzione Civile, che trova nell’avversione al PDL costituente e primigenia ragione d’esistenza, e che, ad ogni piè sospinto, rivendica la propria natura rigorosamente apolitica – la fantomatica ed impalpabile società civile, espressione abusata ed evocativa, benché semanticamente e concettualmente priva di qualsivoglia senso – candiderà numerosi esponenti politici di lungo corso, vecchi lupi di Transatlantico già piazzati in lista in posizioni strategicamente apicali, pronti a tornare in pista dopo un bagnetto purificatore nel battistero dei movimentisti arancioni.
Tra i predetti molossi pronti alla catarsi, al momento acquattatisi sotto il mantello lustrale di Ingroia, si staglia, fiera e disdegnosa, la figura di Oliviero Diliberto; ex PCI, ex Rifondazione Comunista, ex Comunisti Italiani, ex Sinistra Arcobaleno, oggi capolista per il Senato in Emilia Romagna proprio con Rivoluzione Civile.

Ecco, giusto di passaggio e giusto per puntiglio, val la pena ricordare a tutti gli appassionati cacciatori di peccati originali di cui abbonda l’elettorato di sinistra, che Diliberto fu Ministro di Grazia e Giustizia nel governo D’Alema, e in quegli anni sottoscrisse, in qualità di autorevole membro di quell’Esecutivo, scelte di memorabile acume politico – cogliendo fior da fiore, la procedura di acquisto dei tanto vituperati F-35, avviata nel 1996 da Prodi, fu ratificata due anni dopo proprio dall’esecutivo D’Alema.

Ciliegina sulla torta di una stagione da ricordare, Diliberto affiancò in Parlamento persino Lamberto Dini, all’epoca anch’egli Ministro alla corte del Lider Maximo, ed oggi inamovibile Senatore del Popolo delle Libertà e strenuo sostenitore del Berlusconi VI.

Ad ogni modo, e con ogni evidenza, queste son tuttavia null’altro che piccolezze; cronache frastagliate di esperienze politiche più o meno irrilevanti, dettagli di colore, gustosi finché si vuole ma che eludono il senso generale, sfocando il punto di vista su quanto è essenziale. E l’essenziale è che a sinistra si sta procedendo con l’ennesimo esercizio di contemplazione del proprio ombelico e con relativa superfetazione di leader piccoli piccoli – giacché, curiosamente, il leaderismo è un deprecabile residuo dell’ideologia borghese solo quando esprime percentuali a due cifre, e diviene, d’incanto, riprova di plurali auliche sensibilità in presenza di voti da assemblea condominiale.

Nel frattempo il Ceausescu brianzolo ha già recuperato sei punti percentuali nell’ultimo mese, il PD ne ha persi ben quattro, e al voto mancano appena due settimane.

È, a ben vedere, l’annosa quaestio del deficit da memoria breve che si mischia al masochismo iterato compulsivo, patologie entrambe ben presenti nella mappatura genetica dell’elettorato di sinistra italiano. Ancora qualche palpitazione massimalista, un de Magistris descamisado, un Ingroia affannosamente contro tutto e tutti, un’altra agenda rossa sventolata, qualche altra copia del Fatto, e, di colpo, le immagini del recente passato scompariranno del tutto.
Svanirà il ricordo di Maria Stella Gelmini in compagnia dei suoi neutrini, svanirà l’aberrazione omofoba di Giovanardi e i post-fascismi in salsa nazionalpopolare, la truppa di mignotte, nani, maschere e lacchè, la Lega a Montecitorio e i Belsito in Finmeccanica, svaniranno le risatine della Merkel, lo spread a 600 punti base e scusatemi, ma devo fermarmi qui, o farò di questo pezzo una Messa cantata.

Speriamo davvero di non dover comprare, la mattina del 26 febbraio, un biglietto aereo di sola andata.

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