Un pacco bomba – in gergo “plico esplosivo” – è stato recapitato due giorni fa alla redazione del quotidiano “La Stampa”.
L’ordigno, situato all’interno di una custodia per compact disc, conteneva polvere nera e fili collegati ad una pila; stando a quanto asseriscono gli inquirenti, non è esploso per pura fortuna.
Non un atto dimostrativo dunque, ma un congegno confezionato con perizia assassina.
Nessun mittente, nessun biglietto.
Al momento, la pista più accreditata è quella riconducibile ai movimenti anarco-insurrezionalisti torinesi; gli uomini della Digos stanno indagando all’interno del Fai, blocco anarchico duro e puro, organico alla “galassia nera” del capoluogo piemontese.
Integralisti veri, quelli del Fai; gente che vive nell’ombra, non agisce per mesi, non si vede nei cortei e crede nella violenza come mezzo per “distruggere lo Stato”, senza se e senza ma.
E’ l’ennesimo rigurgito di un passato senza onore, che perpetra la propria esistenza anche grazie al ventre molle del giustificazionismo pseudo-intellettuale di quanti, ancora oggi, esprimono le proprie ridicole posizioni su siti di gruppi antagonisti e nei comunicati stampa di alcuni collettivi studenteschi; drappelli certamente minoritari e sfilacciati, a cui non si deve dar più credito e attenzione del dovuto, ma che restano tuttavia interessanti da osservare in ragione di quella inesausta gara, ideologicamente trasversale ed in auge nell’extraparlamentarismo italiano da più di trent’anni, a chi esprime la posizione più estremista ed intransigente, in una competizione pressoché infinita in cui il primato si misura esclusivamente attraverso la radicalità delle proprie opinioni, e che, immancabilmente, bolla chi non condivide le rinnovate posizioni del movimento, o del gruppo, o del collettivo, o del giornale di turno, come un traditore, un reietto, un servo.
Questo germe, questo veleno inoculatosi in modo indissociabile, fin dagli anni settanta, nel racconto, nella cronaca, e infine nell’analisi del fenomeno del brigatismo (rosso e nero), non rappresenta altro che la degenerazione, e insieme il rifiuto, di una autentica ricostruzione storica di quegli anni.
La vicenda multiforme, complessa e agghiacciante del terrorismo viene da alcuni, ancora oggi, semplificata e mistificata al punto da divenire il racconto di uomini e di donne che commisero errori in ragione di ideali nobili, animati dal desiderio di riscattare in senso democratico la società, e nel quale il terrorismo, la lotta armata, i morti ammazzati, i gambizzati, i feriti, le rapine e i rapimenti rappresentano soltanto una qualche forma di eterogenesi dei fini, un mal riposto senso di giustizia, una nota a margine di quel grandioso impianto ideologico primigenio.
E tutto questo può accadere in Italia (e non, ad esempio, in Germania) perché il nostro è un Paese a tutt’oggi incapace di procedere ad una seria ed organica critica storica del proprio passato – si chiami esso fascismo, brigatismo o stragismo – e che, proprio in virtù di questa inguaribile cecità mascherata da patetica concordia nazionale, non è di fatto mai riuscito, nella sua pur breve storia repubblicana, ad articolare un discorso credibile rispetto al proprio futuro.
Elsa Morante, in una sua celebre lettera del 1978, scrisse che “una società instaurata nel totale disprezzo della persona umana, qualsiasi nome voglia darsi, non può essere che oscenamente fascista: e può disporre oggi, inoltre, di tali mezzi, da raffinare ancora, se possibile, i propri metodi tradizionali. Da una simile società ormai non possono nascere che generazioni di castrati e di servi. Non crediate dunque di rendervi credibili auspicando il peggio, in nome di chissà quali catarsi successive”.
A rileggerla oggi, quella lettera rappresenta una profezia che si è drammaticamente avverata.
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