Artillery Place, Woolwich, Londra.
Due giovani di origine nigeriana investono con la loro auto un soldato, e, armati di machete e coltello, lo decapitano al grido di “Allah Akbar”.
Con il corpo sventrato della vittima ancora in terra, uno dei due assassini – mani insanguinate e mannaia in mano – si fa riprendere in un breve video amatoriale nel quale, sostanzialmente, evoca l’elenco delle ragioni del jihadismo internazionale. Non è ancora del tutto chiaro se il video sia stato registrato da uno dei due uomini, o se, come sta emergendo in queste ore, gli assassini abbiano costretto un passante a riprendere la scena.
Un testimone, intervistato dalla LBC, ha dichiarato che i “due ragazzi erano come impazziti. Sembravano animali, lo hanno ucciso e poi hanno lasciato il corpo del militare sul marciapiede; poi hanno chiesto ai presenti di riprendere il tutto. Volevano finire in tv. Erano più preoccupati di doversi far fotografare che di fuggire”.
Il testimone ha perfettamente ragione. Guardando i 18 secondi del filmato, la prima cosa che colpisce è l’assoluta perizia con cui il messaggio è stato confezionato; non un dettaglio, né una parola, possono essere considerati incidentali o improvvisati. Ogni singolo fotogramma concorre alla creazione di quella peculiare sensazione di terrore che deriva dallo straniamento del contesto in cui l’orrore dell’esecuzione si compie: nella ripresa – un campo medio – l’assassino occupa il lato sinistro dell’inquadratura, mentre, sullo sfondo, si distinguono chiaramente una ventina di passanti, radunatisi sul lato opposto della strada. Tra loro, spicca la figura di una donna africana vestita con un igbo turchese, che trascina un carrello della spesa. Ancora, sul fondo, un camion bianco, un paio di cartelli stradali, alcune aiuole, una piazzetta pedonale su cui affaccia quello che sembra un chiosco di hot dogs.
Ogni singolo elemento è iconograficamente coerente con una sorta di specifico occidentale del sobborgo cittadino; è un contesto che identifichiamo immediatamente come familiare, conosciuto. Sono le strade in cui abitiamo, sono i nostri marciapiedi. E su quelle strade, lungo quei marciapiedi, un giovane uomo nero stringe tra le mani coperte di sangue una mannaia e un coltello, e ci guarda dritto negli occhi – guarda dritto dentro l’obiettivo della camera come se ci stesse guardando negli occhi, con la perizia consumata di un taxi driver postmoderno che ha attraversato un orrore indicibile di cui ritiene responsabili, indiscriminatamente, tutti noi, le nostre casette basse, i nostri giardinetti, la nostra TV, i nostri organi di rappresentanza, ed ogni singolo elemento della cosiddetta way of life occidentale. Ci urla che non siamo al sicuro (ma potrebbe anche tacere, tanto il suo sguardo è comunicativamente decisivo) e che pagheremo con la nostra stessa vita; che sarà il nostro sangue ad essere versato in terra, e che quella terra sarà la nostra casa, e non un altrove indeterminato, non un luogo di cronache feroci e tuttavia aliene, lontane, geograficamente siderali – non un campo profughi, non una foresta, o un deserto.
A guardarlo, l’assassino appare come un testimonial vivente di quello che, nel gergo della moda prêt-à-porter, viene oggi definito streetwear: zuccotto in lana nero con un target da poligono disegnato sul lato destro, felpa XXL grigia scura, jeans laschi, e le immarcescibili sneakers Adidas ai piedi, con il loro logo a tre bande color giallo fluo. Un ragazzotto dei sobborghi identico ad altri mille – ad eccezione della mannaia insanguinata, s’intende.
Questo aspetto di identità/straniamento amplifica ed estremizza il concetto di cellula impazzita che sta alla base del fenomeno terroristico targato XXI secolo; non a caso, i media britannici hanno posto l’accento, fin dai primi lanci di agenzia, su uno di quei dettagli-sineddoche che rappresentano la gioia di ogni reporter: uno dei due killer indossava una t-shirt di “Help for Heroes”, charity che assiste e sostiene i feriti di guerra, principalmente in Afghanistan.
Come durante la maratona di Boston il mese scorso, o come a Roma, in piazza Montecitorio, la violenza si insinua ed esplode nella nostra stessa quotidianità, e la sua insondabile ambiguità mimetica ci atterrisce e destabilizza. Certificando la fine del principio di neutralità dei nostri piccoli incubi suburbani, si certifica anche l’impossibilità di difendersi: in quest’ottica, le parole di fuoco di Barak Obama ieri e di David Cameron oggi, il loro corrucciato ribadire che il pericolo verrà scongiurato, ed il nemico (Quale? Dove?) definitivamente sconfitto, suonano più come una sirena d’allarme che non come una rassicurazione.
Torniamo al video: al quattordicesimo secondo, l’inquadratura si allarga lievemente, e la camera vira alla sinistra dell’uomo-mannaia: ora distinguiamo chiaramente il corpo del poliziotto in terra, senza vita, e l’auto dei due killer. Più in là altre persone, qualche panchina, alberi, la città.
Ho il fermo-immagine davanti agli occhi: l’uomo-mannaia si allontana a testa bassa: ha l’andatura da rapper, ed è animato dalla consapevolezza di aver regalato al pubblico un’ottima interpretazione, ma sembra, al contempo, affranto e stremato. Poco più in là, in controcampo, il cadavere.
Ecco, io ritengo che questa sia esattamente la rappresentazione della morte che nessun governo occidentale vorrebbe mai venisse mostrata ai propri cittadini. Vale a dire, quel particolare tipo di morte violenta che non permette, ai testimoni di quell’orrore, di poter distinguere chiaramente la malvagità, attraverso i codici definiti ed ipostatizzati con cui si è soliti categorizzarla: nessun kalashnikov brandito in aria, nessun thawb, nessuna folla inferocita che ci parli di alterità, se possibile in una qualche lingua semitica.
Si tratta, a ben vedere, di una questione che in Occidente è ormai consueta e macabra al contempo: abbiamo visto collassare le torri gemelle centinaia di volte, da ogni angolatura che l’avidità dei media ha potuto, in quasi tredici anni, immaginare; ma mai, nemmeno una volta, ci è stata fornita l’immagine di un solo corpo carbonizzato o dilaniato a seguito di quella immane tragedia.
Non si tratta, ovviamente, di sensibilità: non abbiamo alcun tipo di problema con la morte, né con le sue infinite e più truci rappresentazioni: non ci scalfiscono le immagini di bambini sventrati da qualche parte, chessò, in Siria, o di donne lapidate in un qualche indeterminato altrove, documentate con dovizia di dettagli all’interno dei Tg della sera. Quel che conta, è che quella morte non sia la nostra, e – ancor più importante – che quella morte non sia vicina.
La nostra reazione è connaturata ad una degenerazione del pensiero contemporaneo (e, specificatamente, degli strumenti d’indagine impiegati in ambito ontologico) le cui conseguenze ultime – rapporto tra coscienza e orizzonte finale di senso, struttura trascendentale della condizione umana, intreccio tra prossimità e ulteriorità – si determinano come “una naturale conseguenza dell’abbandono di una visione sistematica della realtà e della stessa esistenza umana” (A.Rigobello, M.Ivaldo, cfr).
Una metafisica del tramonto, in cui vacilla la concretezza del reale.
Rispondi