La prima, inaspettata peculiarità di Istanbul, è la sua straordinaria conformazione geografica. Percorrendo il breve tratto di mare che separa il porto di Kadiköy da quello di Eminönü, si realizza l’assenza di un unico centro cittadino classicamente inteso; la monumentalità di tradizione islamico-ottomana della parte sud-occidentale della città si contrappone allo skyline ferocemente occidentale di Beyoğlu, che, estendendosi a nord del Corno d’Oro, rappresenta il lato più smaccatamente europeo di Istanbul, centro nevralgico ed insieme avamposto del nuovo potere economico e finanziario turco.
Piazza Taksim, immensa ed anonima, è il cuore stesso del quartiere di Beyoğlu.
Non è perciò un caso che la protesta degli ultimi giorni, nata sostanzialmente come sit-in ambientalista e divenuta rivolta della Turchia laica contro il premier Recep Tayyip Erdogan, abbia scelto come proprio principale teatro d’azione e di aggregazione quella piazza.
In essa vengono conchiuse e rappresentate le due tensioni decisive – solo in apparenza contraddittorie – che hanno animato, in questi giorni, il fronte della protesta.
Da un lato, abbiamo assistito al rifiuto da parte della popolazione di quell’ipertrofico sviluppo urbanistico che, negli ultimi quindici anni, ha sventrato il territorio ed il tessuto identitario e storico di Istanbul; una città che è stata capitale di tre differenti imperi e che oggi vede, nelle lamiere dei grattacieli che superano in altezza i minareti, soltanto l’arroganza del potere politico e dell’élite finanziaria ad esso collegata.
Alla rabbia esplosa negli ultimi giorni le forze dell’ordine hanno risposto con inaccettabile brutalità, e la guerriglia scoppiata per proteggere gli spazi urbani è divenuta anche la battaglia in difesa dei principi di laicità, democrazia e libertà. Le immagini di poliziotti armati che usavano gas urticanti su giovani inermi hanno indignato gran parte della popolazione turca di area liberale, innescando reazioni a catena in altre sessanta città, tra cui la capitale Ankara.
L’assenza di un vero partito di opposizione di stampo modernista, il conseguente accentramento di quote di potere governativo inevitabilmente collegato a tale vulnus rappresentativo, e le crescenti pressioni censorie cui il Premier Erdogan ha via via sottoposto gli organi di stampa e gli intellettuali (sempre più spesso vittime di processi-farsa e costretti a difendersi da accuse quali l’oltraggio alla nazione o alla religione islamica), sono le tre ragioni alla base dell’escalation di tensione degli ultimi giorni.
In particolare, le crescenti limitazioni imposte alle più basilari forme di libertà di stampa e di parola sono stati i detonatori decisivi della protesta: il mondo dei media, in Turchia, ha, negli ultimi dieci anni, perso il suo carattere pluralista, e molte voci critiche sono state emarginate o escluse dal dibattito pubblico. I principali mezzi di informazione si sono dimostrati piuttosto riluttanti nel fornire una copertura adeguata delle manifestazioni in atto in tutto il Paese, e la stessa NTV, uno dei canali televisivi principali, è stata ferocemente criticata per non aver parlato di quanto stava accadendo, trasmettendo invece soltanto le immagini delle proteste contro l’emittente stessa.
In questa situazione, i dati forniti da una ricerca della New York University pubblicata in questi giorni appaiono emblematici, e raccontano in maniera formidabile del mutamento dei processi di comunicazione/significazione propri della contemporaneità: nel web, in meno di otto ore, sono stati condivisi oltre due milioni di tweet afferenti il parco Gezi.
Percorrendo piazza Taksim, e le arterie ad essa collegate, si possono incontrare in questi giorni migliaia di manifestanti che bevono birra senza nascondersi; un dettaglio questo, solo in apparenza folkloristico: una delle scintille che ha spinto molte persone ad unirsi al movimento è stata la limitazione governativa imposta sul consumo di alcolici, cui si sono aggiunte le discriminazioni sessuali ed il divieto di scambiarsi effusioni in pubblico, e, più in generale, una visione polarizzata della società di stampo tradizionalista, probizionista ed anti-inclusivista.
Bere birra e baciarsi in pubblico sono divenuti atti di resistenza ed espressione della richiesta di libertà di un intero popolo, in una relazione causale implicante il complesso e decisivo rapporto tra conseguimento del piacere, modalità di comunicazione e accesso alla società dei consumi che è alla base del modello liberale e di individualismo metodologico occidentale.
Una elaborazione concettuale che non sia esclusivamente trattazione sistematica o dialettica e non fondi la propria indagine soltanto sulla costruzione del tutto a partire dal nulla, ma si proponga anche come analisi critica di quanto ci circonda, da condurre attraverso quegli strumenti d’indagine che possono (devono) estendersi a qualsiasi aspetto capace di rispecchiare/rappresentare la nostra vita – in breve, l’insieme dei principi che sta alla base di una filosofia pop contemporanea propriamente intesa – deve suggerirci che l’ideologia è, qui e ora, qualcosa che riguarda primariamente il desiderio e l’inconscio. Deve essere ricercata nella pratica quotidiana, piuttosto che nelle nostre opinioni o convinzioni, specie se consapevoli.
Inquadrata in tale prospettiva, la rivolta esplosa in Turchia nelle ultime settimane appare esemplare: studenti, lavoratori, sindacati di estrema sinistra, rappresentanti della cultura accademica, intellettuali ed esponenti della cosiddetta élite laica erede degli ideali di Mustafa Kemal Atatürk, associazioni ambientaliste e femministe, liberali filo-occidentali ed imprenditori stanchi della corruzione che la nuova classe di spregiudicati capitalisti religiosi dell’Anatolia ha introdotto nelle dinamiche di assegnazione degli appalti, minoranze curde ed alevite, tutti, indistintamente, hanno scelto di opporsi a quella che reputano essere una insostenibile diminuzione dei principi di modernità, pluralismo, secolarismo e democrazia.
Le correnti minacciose che attraversano il Bosforo e ne fanno un braccio di mare inquieto ed oscuro appaiono, ai miei occhi, come un peculiare contraltare simbolico: chi ha parlato, in questi giorni, di una nuova primavera turca, ha grossolanamente sbagliato.
La Turchia ha di certo tratti in comune con molti Stati del Medio Oriente, ma, diversamente dalla maggioranza dei Paesi arabi, racchiude in sé una tradizione democratica di lungo corso, frutto di scelte condivise negli anni dalla quasi totalità della popolazione. Ha in sé gli anticorpi necessari a riequilibrare le proprie degenerazioni di potere e di rappresentanza politica.
Questa è la nostra speranza ed insieme il nostro desiderio e la nostra rabbia; un’urgenza di testimonianza che non possiamo disattendere; che incarna ed anima, al netto di ogni indistinto altrove, i nostri più preziosi, basilari e non negoziabili principi di umanità.
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