Gli appassionati sostenitori del terzomondismo finanziario – cliché da sempre in voga alle nostre latitudini – dovranno, forse, cominciare a fare i conti con l’inesorabile incancrenirsi della situazione economica argentina, rivolgendo la loro inesausta ricerca di modelli economici verso altri lidi.
La politica economica e fiscale del governo Kirchner viene da anni considerata, da una pletora di economisti freakkettoni, come un esempio di sviluppo da perseguire senza se e senza ma. E poco conta che, già dal luglio 2012, in Argentina fosse entrato in vigore un provvedimento che vietava agli abitanti di convertire i loro pesos in dollari.
Badate bene, non si trattò soltanto di un espediente-emblema, illiberale ed autoritario: comprare dollari è sempre stato, per il popolo argentino, uno dei pochi strumenti per difenedersi dell’inflazione, per poter viaggiare all’estero, per importare prodotti, insomma, in una parola, per potersi affacciare al mondo. Questa soluzione apparve, già allora, come l’ultima di una serie di decisioni protezioniste piuttosto discutibili, che spinsero diversi economisti a credere che l’Argentina fosse, nuovamente, sull’orlo del default.
Del resto, i dati erano allora, e sono tutt’ora, piuttosto evidenti: dalla bancarotta del 2001 l’Argentina non ha, di fatto, più avuto accesso al mercato del debito mondiale; come conseguenza diretta, il denaro per finanziare la politica di spesa pubblica voluta da Kirchner è arrivato dalla Banca Centrale, che, a partire dal 2010, ha progressivamente perso indipendenza fino a diventare, oggi, una succursale del Governo.
Tra il 2010 e il 2012, circa 16 miliardi di dollari sono passati dalla Banca Centrale al Governo, il quale ha cominciato anche a procedere al sequestro di fondi della previdenza sociale.
Nel contempo, la Banca Centrale ha continuato ad immettere moneta sul mercato – una pratica consueta in presenza di una congiuntura al rialzo, ma che produce inflazione nel caso in cui, come sta accadendo in Argentina ormai da diverso tempo, si stampi più moneta di quanto sia necessario.
Veniamo ad oggi: da Aprile 2013, il limite sui prelievi valutari all’estero per i cittadini argentini è stato abbassato a 100 dollari a trimestre per chi ritirerà contante in paesi limitrofi, e ad 800 dollari al mese per tutti gli altri Stati. Malgrado ciò rappresenti soltanto l’ultima di una serie di feroci misure di contenimento, l’Argentina continua a perdere valuta in modo costante: nel quarto trimestre 2012 il deflusso – secondo i dati ufficiali della Banca Centrale, considerati da tutti gli osservatori internazionali largamente al ribasso – è stato di circa 1,5 miliardi di dollari, dopo i meno 1,7 miliardi del terzo trimestre, mentre la draconiana stretta sulle transazioni valutarie non fa che aumentare il cambio nero del peso.
In aggiunta a ciò, sempre nel primo trimestre di quest’anno, il deficit pubblico ha segnato un +11% rispetto al 2012, e la spesa corrente ha registrato un incremento del 26% – il che, insieme ad un aumento salariale medio del 24% ottenuto da quasi la metà dei lavoratori argentini, suggerisce quale sia il reale livello d’inflazione ormai raggiunto. Benché l’ INDEC – l’ISTAT argentina – fissi il livello d’inflazione intorno al 9%, alcuni ricercatori indipendenti (multati e minacciati dal Governo, almeno stando a quanto riferiva qualche mese fa il Washington Post) collocherebbero l’inflazione già a più del 25%; un dato su cui si trovano concordi quasi tutti gli analisti finanziari internazionali, tanto che l’ Economist ha ormai deciso di non utilizzare più i dati INDEC nei propri articoli.
Ciliegina sulla torta di un anno da ricordare, nel 2012, in Argentina, il bilancio si è chiuso con il primo deficit primario (vale a dire, con le spese dello Stato che hanno superato le entrate prima ancora che venissero conteggiate le spese per interessi sul debito) dal 1996.
Per scongiurare quello che appare come un crack lento ed inevitabile, il Governo Kirchner ha promesso che proseguirà lungo la via dei vincoli all’utilizzo di dollari.
Si tratta, purtroppo, di un film già visto: l’ombra lunga e spaventosa delle restrizioni alle libertà civili ha già cominciato, inesorabile, ad adombrare l’orizzonte argentino.
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