Innanzi tutto, un po’ di storia – di quella con la “s” rigorosamente minuscola, s’intende.
Nell’ottobre 2010, in occasione del congresso fondativo di Sel, fu per primo lo stesso Vendola ad auspicare, di fronte ai delegati lì riuniti, che quel neonato contenitore politico potesse rappresentare un momento di passaggio; che ambisse, come proprio naturale approdo, ad una fusione con un grande partito di massa di centro-sinistra.
Cito testualmente: “lo scopo è costruire la sinistra del XXI secolo, siamo un seme che deve far nascere un germoglio. Ma poi il seme muore e diventa altro, non restiamo attaccati al partito come se fosse un feticcio.”
Ricordo che nel corso di quel meraviglioso intervento (in cui il neo-segretario citò, tra gli altri, Gramsci e Oscar Wilde), l’ovazione più calorosa si ebbe quando Vendola urlò, stentoreo e accalorato, “ci siamo stancati di perdere bene, adesso vogliamo vincere”. Fu proprio in quel passaggio che, come si suol dire in questi casi, venne giù il teatro (si dirà: una delle tante acclamazioni con il coltello nascosto nel bavero di cui è infarcita la storia recente della sinistra italiana).
Quel che accadde poi è storia nota: il PD con le proprie assorte contemplazioni ombelicali, le faide fratricide ed una inesasusta vocazione al patto faustiano; Sel e la deriva leaderistica, il narcisismo minoritario e la mai risolta ambiguità, per l’appunto, tra movimentismo e cultura di governo.
I transfughi di Sel scelgono oggi, con tempistica probabilmente discutibile, di risolvere l’aporia vendoliana di cui sopra in maniera certamente brutale, benché indispensabile.
La verita’ e’ che, senza scomodare categorie etiche come “Il coraggio” o “La fedelta’”, nelle umane faccende il confine che separa velleitarismo e rigore, sogno e ambizione, progetto e utopia, e’ sempre piuttosto labile.
La condanna dell’opportunismo e dell’assenza di gratitudine in politica è, a mio avviso, vizietto sciocco per anime belle a corto di visione prospettica; per natura e formazione tendo a guardare con simpatia chi prova ad attraversare il guado sporcandosi di fango, mentre diffido di quanti, armati di matita rossa, attribuiscono opinabilissime patenti di “fedelta’ alla linea”.
Specialmente quando, per dirla con i versi gloriosi di una vecchia canzone, “la linea non c’e'”.
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