Dunque, è stato un suicidio.
Certo, la frattura al coccige, le ecchimosi – numerose – su schiena e gambe e le “copiose tracce di sangue nella zona lombare”; lesioni ritenute “fresche” e, nondimeno, “compatibili” con una “caduta dalle scale” nei sotterranei del palazzo di giustizia.
Stefano Cucchi muore per sindrome di inanizione, vale a dire per la sua ostinazione a non volersi nutrire ed idratare a sufficienza, una volta giunto al Pertini.
Una ostinazione esiziale – ce lo dice il SAP – perfettamente coerente con il suo passato di tossico.
E poco importa che a quel lasciarsi morire, a quel suicidarsi che, a questo punto, sarebbe potuto accadere anche nel letto di casa sua, abbia contribuito la “distrazione” di medici e infermieri che lo lasciarono in agonia con un catetere ostruito, fino a far gonfiare la sua vescica con 1400 centimetri cubi di urina.
La perizia d’ufficio lo dice chiaro: non vi sono nessi di causa-effetto tra i traumi riportati e la morte del soggetto.
Possiamo tornarcene a casa sereni: non è stato nessuno.
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