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Aventino is a state of mind.

2 Ago

Ed è tutto uno sganasciar di risa questa indigestione/strazio di citazioni, evocazioni ed immaginazioni.
Pietro Grasso come Oblomov – la cultura innanzi tutto, ci mancherebbe – e poi, in ordine sparso, gli intramontabili riferimenti ai dittatori sudamericani, le urla sguaiate, benché unisone, di Sel e Lega, in una inedita corrispondenza d’amorosi sensi (LI-BER-TA’! LI-BER-TA’!), il bizantinismo estenuante degli 8000 emendamenti, che da astruseria da prima repubblica diviene architettura immateriale d’ ogni democrazia e panacea ultima di tutti i mali del mondo; e, soprattutto, ineguagliata ed ineguagliabile, la glassa mefitica per eccellenza del vocabolario politico degli ultimi anni: l’immancabile, imprescindibile Aventino.

Io prendo una tagliata di luogo comune al sangue ed un bicchiere di Chianti. Voi gradite qualcosa?

Dal Vangelo secondo Nichi

26 Giu

Innanzi tutto, un po’ di storia – di quella con la “s” rigorosamente minuscola, s’intende.

Nell’ottobre 2010, in occasione del congresso fondativo di Sel, fu per primo lo stesso Vendola ad auspicare, di fronte ai delegati lì riuniti, che quel neonato contenitore politico potesse rappresentare un momento di passaggio; che ambisse, come proprio naturale approdo, ad una fusione con un grande partito di massa di centro-sinistra.

Cito testualmente: “lo scopo è costruire la sinistra del XXI secolo, siamo un seme che deve far nascere un germoglio. Ma poi il seme muore e diventa altro, non restiamo attaccati al partito come se fosse un feticcio.”

Ricordo che nel corso di quel meraviglioso intervento (in cui il neo-segretario citò, tra gli altri, Gramsci e Oscar Wilde), l’ovazione più calorosa si ebbe quando Vendola urlò, stentoreo e accalorato, “ci siamo stancati di perdere bene, adesso vogliamo vincere”. Fu proprio in quel passaggio che, come si suol dire in questi casi, venne giù il teatro (si dirà: una delle tante acclamazioni con il coltello nascosto nel bavero di cui è infarcita la storia recente della sinistra italiana).

Quel che accadde poi è storia nota: il PD con le proprie assorte contemplazioni ombelicali, le faide fratricide ed una inesasusta vocazione al patto faustiano; Sel e la deriva leaderistica, il narcisismo minoritario e la mai risolta ambiguità, per l’appunto, tra movimentismo e cultura di governo.

I transfughi di Sel scelgono oggi, con tempistica probabilmente discutibile, di risolvere l’aporia vendoliana di cui sopra in maniera certamente brutale, benché indispensabile.

La verita’ e’ che, senza scomodare categorie etiche come “Il coraggio” o “La fedelta’”, nelle umane faccende il confine che separa velleitarismo e rigore, sogno e ambizione, progetto e utopia, e’ sempre piuttosto labile.
La condanna dell’opportunismo e dell’assenza di gratitudine in politica è, a mio avviso, vizietto sciocco per anime belle a corto di visione prospettica; per natura e formazione tendo a guardare con simpatia chi prova ad attraversare il guado sporcandosi di fango, mentre diffido di quanti, armati di matita rossa, attribuiscono opinabilissime patenti di “fedelta’ alla linea”.
Specialmente quando, per dirla con i versi gloriosi di una vecchia canzone, “la linea non c’e'”.

Il valore di un’idiozia

13 Nov

«Tutti noi ricordiamo commossi i 19 italiani deceduti in quell’attacco kamikaze, e oggi siamo vicini ai loro familiari […] Nessuno ricorda però il giovane marocchino che si suicidò per portare a compimento quella strage: quando si parla di lui, se ne parla solo come di un assassino, e non anche come di una vittima, perché anch’egli fu vittima oltre che carnefice»

Ecco, sarebbe bello credere che le parole pronunciate ieri alla camera dalla deputata grillina Emanuela Corda siano solo una prova certificata di elementare ignoranza, una banale dimostrazione di incultura, afferente la lingua italiana prima ancora che la complessità delle questioni umane.

Invece la faccenda è, se possibile, ancora peggiore: siamo in presenza dell’ennesimo mezzuccio da trivio per la conquista di un titolo giornalistico, niente più che la ricerca d’ un riflettore puntato, volto al conseguimento di un briciolo di interesse da parte di quegli stessi media che, pure, il grillismo ha sempre detto di voler abbattere.

E foss’ anche l’attenzione biasimevole che si deve all’incivile, al somaro, all’incolto, che importa? Tutto fa brodo nel mercato riprovevole del “dichiarificio” made in Italy: la vetusta, eppure sempreverde massima, “bene o male, purchè se ne parli”, eternamente identica a se stessa, a dispetto d’ogni sedicente nuovismo.

Proprio come per le parole d’un qualunque Giovanardi, dunque, anche il discorsetto senza senso di Emanuela Corda non suscita indignazione per la pochezza delle tesi o per la fragilità (anzitutto logica) delle posizioni espresse, quanto piuttosto per quel desiderio di “esserci per apparire” che è il figlio prediletto di questo Tempo; nulla a che vedere con la messa in scena di un cabaret, magari fracassone eppure attraente (arte nobile, in cui il padrone del M5S un tempo eccelse), ma solo volgare, prevedibile, insignificante avanspettacolo.

#ResIstanbul_2

30 Giu

Il progressivo spegnersi dei riflettori occidentali sulla rivolta di Piazza Taksim, e sulla destrutturazione che questa ha prodotto nell’intero tessuto sociale turco, non corrisponde affatto ad una diminuzione delle tensioni in corso nel Paese; piuttosto, suggerisce ed amplifica la vacuità colpevole di una Europa priva di qualsivoglia prospettiva metodologica condivisa, e nella quale l’ineffabilità della propria politica estera si fa sineddoche dell’assenza di un orizzonte propriamente etico – gli inutilmente evocativi ed immancabilmente strombazzati “valori occidentali”.

Procediamo dunque a un breve sunto degli eventi degli ultimi giorni, prima di avventurarci in considerazioni, crediamo, di più ampio respiro.

– Alle 21 di ieri sera, circa 2000 manifestanti hanno tentato di riprendersi Piazza Taksim; alle ragioni che animano ormai da un mese la protesta, si è aggiunta la rabbia per la decisione, assunta dalla Corte di Ankara, di rilasciare un agente di polizia accusato di avere ucciso con una pallottola alla testa un dimostrante.

– La scorsa settimana sul sito del quotidiano “Hurriyet” è stato diffuso un video nel quale 17 agenti massacrano di botte tre giovani in un garage. Il filmato, ottenuto dall’associazione avvocati progressisti, mostra due ragazzi e una ragazza seduti per terra in un parcheggio sotterraneo, probabilmente mentre cercano di sfuggire alla repressione della polizia durante una manifestazione ad Antaliya, il 2 giugno scorso. Contestualmente alla diffusione del video, il Premier Erdogan ha elogiato nuovamente l’operato della polizia, parlando di “epopea eroica”.

– Nell’ambito delle indagini sulle proteste anti-governative partite da piazza Taksim a Istanbul e svoltesi ad Ankara, la polizia turca ha arrestato 20 persone con l’accusa di far parte di organizzazioni terroristiche. Tra i capi di imputazione, anche gli attacchi alla polizia e la distruzione di proprietà pubbliche nella capitale.

– Resta impossibile fornire un numero esatto dei feriti dall’inizio delle proteste, ma una cifra considerata realistica si aggira ormai attorno alle undicimila unità.

– Ad oggi, almeno 15 manifestanti hanno perso la vista a seguito del massiccio impiego di gas urticanti utilizzati dalle forze dell’ordine.

La sanguinaria reazione del Governo turco alla marea delle proteste, cresciuta e sviluppatasi nel corso di questo giugno 2013, ha progressivamente svelato non solo la pervicace violenza di una satrapia di potere corrotta, oscurantista e sorda alle più basilari istanze di rinnovamento provenienti dalla maggioranza della popolazione, insieme alle mire messianico-espansionistiche di un uomo, il Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan, ormai del tutto imbrigliato in un dualismo solipsistico e patologico-ossessivo con Mustafa Kemal Atatürk (padre della Turchia moderna e artefice, all’inizio del ‘900, della riunificazione democratica del Paese); il nucleo della repressione, scomposta ed intollerabile, ha rivelato soprattutto come quel sistema di potere si ostini a rifiutare la principale prerogativa della contemporaneità, vale a dire la multipolarità, proponendosi altresì come l’avamposto di una visione bipolare del mondo, che è, in se stessa, specificatamente pre-moderna.

Il collasso di una visione dicotomica della realtà e le divergenze insanabili che animarono la metodologia meccanica Cartesiana – nella frattura tra realtà psichica e realtà fisica, tra res cogitans e res extensa – divenendo poi il presupposto speculativo della filosofia politica di Hobbes e del conflitto Hegeliano tra servo e padrone, giungono indiscutibilmente a compimento nell’era delle nuove scoperte neurologiche.

Già nella riflessione che legò Nietzsche a Bergson vi furono anticipazioni radicali nell’idea di una compenetrazione continua di flussi di forze separate e concorrenti – volontà di potenza, evoluzione creatrice – fino a giungere, oggi, ad un approdo concettuale del tutto peculiare, in cui la multipolarità si annoda e si incunea alla sovrapposizione dei diversi piani di realtà, in cui realtà e virtualità si compenetrano nello spazio immateriale del web.

Nel pensiero contemporaneo a cavallo tra filosofia politica e riflessione psico-antropologica, nel dualismo che intercorre tra l’uno e il due, si inserisce la categoria nuova della moltitudine; nella sintesi e nell’accostamento dei concetti di pluralità e di mobilità si ridefinisce la singolarità in se stessa. Il XXI secolo, attraverso la globalizzazione, ha prodotto un rinnovato sommovimento teoretico tale da destituire di fondamento concetti fino a ieri dati come acquisiti – basti pensare al mutare delle stesse idee di centro e di periferia, di interno ed esterno, di integrazione e di frantumazione, fino alla ridefinizione delle nozioni di appartenenza e di uguaglianza.

Il continuo richiamo a una lotta senza quartiere da condurre contro le forze che animano un generico complotto ai danni dello Stato turco, più volte paventata da Erdogan e dalla corte di giannizzeri che lo circonda, altro non è quindi che un esercizio retorico teso a banalizzare e sminuire la vera natura della protesta, la quale vive e si articola come emblematico contraltare della contemporaneità e delle sfumature di complessità in essa innervate; la retorica di un antagonismo tra soggetti contrapposti e definiti – lo Stato da un lato, i terroristi dall’altro – rappresenta un tentativo patetico di semplificazione della multiforme ed articolata specificità del movimento, e, dunque, del reale.

La verità è che a Piazza Taksim la multipolarità ha prevalso: le differenze non sono scomparse, esse sopravvivono, ma i diversi soggetti che compongono le mille sfaccettature della società turca hanno iniziato a trovare punti di comunanza: in particolare, la borghesia laica figlia del miracolo economico degli anni novanta e quella conservatrice ed islamico-moderata, hanno iniziato ad influenzarsi a vicenda – nel modo di pensare, nei comportamenti, financo nell’estetica.

Cenzir Aktar, docente universitario, sostiene che le proteste nate per salvaguardare Gezi Park non siano state una reazione all’islamismo imperante, quanto piuttosto un intransigente rifiuto dell’autoritarismo tout court. Come esempio, viene spesso ricordato quanto accaduto in piazza il 6 giugno scorso: in occasione di una festa musulmana, i manifestanti laici e di sinistra hanno sospeso l’uso dell’alcool per rispetto nei confronti dei manifestanti religiosi presenti nel corteo.

La rivolta turca continua a rappresentare, per ogni osservatore degno di questo nome, soprattutto un argine contro ogni velleitarismo populista; essa incarna in via inderogabile il nostro rifiuto di ogni semplificazione, di ogni banalizzazione, di ogni violenza culturale che fa dell’istintualità manichea e della delegittimazione dell’altro il brodo culturale che anticipa, avallandolo, il colpo di pistola. È la reazione ad ogni autoritarismo brandito come un’arma contro la riflessione sistematica, contro l’indagine sull’uomo e contro la complessità dell’odierno.
In questa lotta, che è la lotta della razionalità contro la degenerazione del potere, nessun arretramento è ammissibile.

Grilli d’antan

31 Mag

A Roma, il M5S è scomparso dai radar per molte (buone) ragioni, ma, tra tutte, una sola è stata davvero decisiva: Ignazio Marino e Gianni Alemanno non sono la stessa cosa.
E, per quanto ci si possa arrampicare sugli specchi dell’assimilazione post-ideologica declinata un tanto al chilo, affannandosi nella coazione a ripetere del “rossi e neri tutti uguali” tanto cara al grillismo elettorale, Marino e Alemanno rappresentano due visioni della politica e del mondo diametralmente opposte; un uomo di sinistra, laico ed ecologista da un lato, un esponente della più retriva destra (pseudo)sociale dall’altro.

Certo, il fatto che De Vito incarnasse plasticamente l’archetipo del dilettante allo sbaraglio non può non aver danneggiato il Movimento, benché, io ritengo, in misura non decisiva.
Tutte le altre ragioni addotte dai grilli romani – i giornalisti cattivi, gli elettori confusi, l’astensionismo, la piazza sbagliata, il derby, Sandro Medici e bla bla bla – sono soltanto fuffa di contorno.

Il M5S, nella capitale, ha preso 150.000 voti. Vale a dire circa 1/4 di quanto raccolto dalla coalizione di centro-sinistra, e poco più di 1/3 rispetto ai voti di Alemanno & C.
Persino la lista Marchini, nata solo tre mesi prima delle elezioni, si è posizionata ad una incollatura da De Vito, ottenendo 120.000 preferenze.
Ora, a mio avviso, con questi numeri non esiste retorica da aritmetica elettorale che tenga.


Certo, chiunque può fornire delle percentuali l’interpretazione che ritiene più funzionale o corretta, ma, diciamocelo chiaro, il dato qui va oltre i numeri, ed è squisitamente politico: una forza come il M5S, a cavallo (non solo semanticamente) tra tsunami e rivoluzione, autodeterminatasi e definitasi come maggioritaria in ogni singola occasione recente e passata – “noi siamo la società civile”, “siete circondati” ed altre amenità da folla oceanica -, che si ritrova oggi, subito dopo il voto, a parlare di scorpori, consiglieri, percentuali, elettori rincoglioniti e giornalisti cattivi, proprio come avrebbe fatto un qualunque partitino ad una cifra della prima repubblica, è in piena antitesi con le premesse e gli obiettivi del Movimento.

Tra l’altro, di questa crisi di sistema in seno al M5S (una crisi da assenza di sistema, a ben vedere) ne è prova inconfutabile l’ultima, incomprensibile, autodistruttiva polemica sollevata dal capobranco contro Rodotà, definito, testualmente, “un ottuagenario miracolato dalla Rete, sbrinato di fresco dal mausoleo dove era stato confinato dai suoi”. Un segnale inequivocabile di quella “assenza di linea” già ampiamente percepita dall’elettorato pentastellato, che, io credo, possa aver pesato anche sul risultato elettorale.

NO.

1 Mag

Tempo necessario per trovare ragioni, metabolizzare, interiorizzare, analizzare.

Il nodo cruciale: le ultime due settimane cambieranno radicalmente e per sempre la Storia d’Italia; al netto della cronaca degli eventi, che non riproporremo in questa sede, l’urgenza di sistematizzare si scontra con una realtà degenerata e confusa, nella quale è assai difficile porre punti fermi.
Provarci, tuttavia, è imperativo. Dunque:

1) L’implosione del Partito Democratico.

Un “cupio dissolvi” secolarizzato, un desiderio di mistico annientamento, di aspirazione alla rinuncia della propria personalità – il rifiuto dell’esistenza, il desiderio di estenuazione, la volontà masochistica di autodistruzione – è ciò che il PD ha dapprima evocato e poi proposto ed incarnato.

Ma, con buona pace della biblica visione di San Paolo, alle nostre latitudini e nella nostra prospettiva incardinata in mondane facezie, non v’è alcun orizzonte ascetico da perseguire, né improbabili fusioni in Cristo; quel che c’è, in ordine sparso e volutamente alogico, è la dissoluzione di un DNA sempre evocato e mai determinatosi, e la preservazione di un gruppo dirigente tanto incapace quanto famelico di quote di potere: un insieme di arrivismo, dirigismo e infantile spregiudicatezza, che non ha risparmiato nessuno.
Non ha risparmiato quanti, dal 2009, hanno guidato la segreteria democratica – i maggiori responsabili della catastrofe, ineguagliati e ineguagliabili nella loro insipienza politica, ideologica, direi quasi esistenziale – i quali, dopo aver condotto una campagna elettorale patetica, aver non-vinto le elezioni (sic) e aver perso quasi due mesi senza riuscire a tessere uno straccio di alleanza di Governo che non includesse il Mastino di Baskerville e la sua accolita di nani e lacché, sono financo riusciti a guadagnare sul campo la Palma d’oro per la miglior faccia tosta, con dichiarazioni del tipo “quella del PD è una storia vincente”.
Non ha risparmiato i giovani turchi, vecchi-bambini da sempre cooptati, cresciuti nel grembo del Dalemismo da sottobosco: cani da riporto famelici, che, dopo esser stati sul carro del Bersani vincitorperdente per anni, non hanno esitato un minuto, una volta decapitato il segretario, a sposare la linea Renziana fino a poche ore prima visceralmente avversata.
E, ciliegina sulla torta di un pastrocchio che se non fosse drammatico sarebbe soltanto ridicolo, non ha risparmiato neppure Renzi e i suoi giannizzeri: mezz’ uomini con sguardi stolidi degni dei più riusciti personaggi Lynchiani, che per primi hanno aperto all’abbraccio mortale con il PDL, dopo aver sbandierato per mesi l’effige dell’anti-alleanzismo come principio fondante e non negoziabile.

Del Partito Democratico, dopo quanto accaduto – trasversalismi, minacce di espulsioni, traditori d’ogni risma, dilettanti veri e presunti, etc. – non resterà più nulla.
Il futuro, sacrificato dall’ottusità vorace ed imbecille dei suoi dirigenti, sarà di pura inconsistenza politica. Stop.

2) Il principio di emergenza.

L’evocata responsabilità istituzionale è il fantasioso abito del Re nudo.
Non occorrono semantiche improbabili né prospettive lombrosiane per intuire che, con spregiudicati gaglioffi come Renato Brunetta o Maurizio Gasparri (cogliendo fior da fiore), nessun fantomatico “patto per la nazione” è possibile.
Credere in un ravvedimento di quella parte di immutati impresentabili che da vent’anni fa carne di porco non solo delle Istituzioni repubblicane ma anche dei più basilari principi di etica pubblica, in ragione di una non meglio precisata saggezza acquisita, è offensivo per l’intelletto di chiunque abbia anche solo un briciolo di memoria.
Perciò, caro lettore: tu, che hai vissuto un intero ventennio di abusi di potere, ed ora devi sorbirti, summa iniuria, pure la sciagurata storiella che ha per titolo “il ravvedimento figlio dell’emergenza”; al fine di non mortificare oltre la tua intelligenza e di non compromettere il funzionamento del tuo già sfiancato sistema nervoso centrale, direi proprio che l’argomento lo chiudiamo qui.

3) Berlusconi ha vinto. Anzi, rivinto. Anzi, stravinto.

O forse sarebbe stato più adatto, come titolo del paragrafo, “Il caimano riabilitato”.

L’uomo gongola; dal suo scranno di senatore, può ricominciare ad ammonire, suggerire, influenzare, brandire. È la soddisfazione della vittoria inattesa quella che traspare dagli occhietti liquidi del quasi ottuagenario. Lui, che in vent’anni di vita politica da oligarca del bagaglino, di regali ne ha ricevuti molti, recatigli in dote con inequivocabile spirito di sottomissione dall’ acefalo centro-sinistra italiano, quest’ultimo omaggio non se lo aspettava davvero.

Già si sussurra di possibili salvacondotti tombali – Senatore a vita, con ogni probabilità – o di incarichi d’alto profilo costituente, quali la presidenza di un indefinito organo parallelo e separato, cui affidare la rifondazione della politica – una bicamerale bis, l’ultima umiliazione di un Parlamento esautorato e vacuo – che funga da momentaneo tappeto rosso per l’immancabile cammino che lo condurrà verso lo scranno più alto, il più ambito: la Presidenza della Repubblica.
Pur non essendo veggenti, sappiamo già come finirà: sarà sufficiente un pretesto qualsiasi, e, con il vento in poppa dei sondaggi, vedremo il ritiro della fiducia ed il ritorno alle urne.
“L’accordo di governo, siglato con i nostri avversari, è stato funzionale alla realizzazione del nostro programma, per il bene delle Istituzioni e della tenuta economica del nostro beneamato Paese; ma ora è il momento di porre fine a questa anomalia. Ènecessario ridare la parola agli elettori, giacché nulla può esser posto al di sopra della volontà popolare”.
Signori, si accettano scommesse.

4) Beppe Grillo e il M5S

Solitario e sorridente, in cima all’albero della cuccagna c’è senza ombra di dubbio il comico genovese. Privato dell’onere della proposta – onere che non ha mai, nemmeno per un istante, immaginato di far proprio – continuerà a far quello che meglio gli riesce: salmodiare ed inveire contro l’odiata casta, stavolta con la certificazione delle proprie ragioni, fornitagli, sic et simpliciter, da un governo che è, in se stesso, rappresentazione plastica di quell’inciucio da anni denunciato dalle pagine del suo blog aziendale.
Seguiranno strali temerari ed immaginifici happening all’insegna della purezza, da contrapporre alla torbida prassi dell’incarnazione da realpolitik dell’ennesimo Letta di potere.


“Che fatica essere italiani”.

Il sussurro del Bispresidente novantenne al giovin Enrico, in sede di giuramento, colto dai cronisti appollaiati a Montecitorio, è più di un’evocazione: è pura esegesi dell’autorità, è la solidale correità di una baronia tricolore che non morirà mai, l’effige di una restaurazione complice alla quale, con buona pace di ogni speculazione monocolore e di ogni monito che inviti alla pacificazione, alla normalizzazione, alla quiete, ognuno di noi avrà l’obbligo di opporsi.

Il nostro No non è mai stato cosi necessario, così inamovibile e così prezioso.

Rebus (senza chiave)

20 Apr

Ore convulse: il tentativo di riassumere in una formula, in un nucleo definito, quanto sta accadendo all’interno del centro-sinistra è una pura utopia.

Dalemiani, Renziani, Bersaniani, Giovani Turchi, Franceschiniani, Barchiani dell’ultimo minuto e frattaglie pseudo-ideologiche d’ogni risma: tutti, indistintamente, hanno concorso a condannare definitivamente a morte il mai nato Partito Democratico, in ragione di prerogative che nulla hanno a che fare con la tanto evocata responsabilità istituzionale degli ultimi mesi, quanto piuttosto con il suo esatto opposto: sgragnignature furbastre da prima repubblica, correnti e correntine (quelle che, malignamente, squali democristiani di lungo corso definivano con un geniale mix di sarcasmo e realismo, “spifferi”), lotte di potere, apparati e rendite di posizione, personalismi, tradimenti.

Ha un bel dire, il professor Prodi, quando, serafico, afferma “chi mi ha messo in questa posizione, dovrà renderne pubblicamente conto”; La verità è che, allo stato attuale, una definitiva resa dei conti resta impraticabile: questa guerra che non è mai stata trincea, oggi non è nemmeno più postazione mobile e assalto da sud-est asiatico: oggi il nemico è tra di noi.
Il nemico siamo noi.

Indietro tutta, miei Prodi.

19 Apr

La candidatura di Marini, proposta ieri dall’apparato PD, è riuscita nella non semplice operazione di spaccare definitivamente il partito, ricompattare il PDL e farsi odiare indistintamente da tutti gli altri.
Era dunque prevedibile
che, dopo predetta proposta suicida, il PD cercasse, nel modo baracconesco, ridicolo e protervamente autoreferenziale che gli è proprio, una qualche ancora di salvezza.
La ricerca di redenzione si è dunque conclusa con il disperato approdo nell’unico porto sicuro che i democratici conoscono, e nel quale da vent’anni, con ottusa coerenza ed insindacabile ortodossia, ciclicamente cercano riparo: Romano Prodi.

Come dire, rifugiarsi nel passato e ricompattarsi a pochi millimetri dal baratro.

La candidatura di Romano Prodi alla Presidenza della Repubblica, votata all’unanimità dal consiglio dei grandi elettori del PD è puro distillato di passatismo.
Una scelta che, se da un lato ricompatta (momentaneamente) il partito dietro un nome forte, dall’altra certifica il terrore e l’incapacità dell’apparato democrat anche solo di immaginare il nuovo; racconta dell’ennesima prova di insipienza politica dell’intero gruppo dirigente Bersaniano, verga un nuovo, luminoso capitolo di incolmabile, arrogante, siderale distanza con il proprio popolo ed il proprio elettorato. Elettorato che – evidentemente animato da una quota di buon senso maggiore di quella ricevuta in dote dai vertici politici che, pure, ha scelto attraverso le sciagurate primarie di dicembre – ha ritenuto fin da subito il nome di Stefano Rodotà, proposto dal M5S, come assolutamente perfetto: rappresentativo, pacificatorio, insieme fresco e rassicurante, e, soprattutto, scelto in una rosa di nomi – da Zagrebelsky a Fo, passando per Emma Bonino – da sempre organici all’universo valoriale dell’elettorato progressista italiano.

Ieri sera, mentre osservavo Bersani (ormai irreversibilmente abbandonato dalla base e fatto a pezzi dai suoi compagni di partito) abbracciare Angelino Alfano a Montecitorio e biascicare uno svogliato “boh” a quanti gli chiedevano una previsione sul voto dell’aula,  non ho potuto non pensare alla famosa massima di François de La Rochefoucauld:

“Il ridicolo disonora più del disonore.”

Toxic marketing

18 Apr

Ricapitolando: cinquanta giorni di polemiche feroci esplose in seno al M5S (alcune pretestuose in verità, altre puntuali, circostanziate e piuttosto preoccupanti) sono state spazzate via in soli tre giorni grazie ad una strategia di comunicazione politica tossica da Oscar del marketing.
Proviamo dunque a riassumere per sommi capi le spinose questioni di cui sopra, prima che la glassa quirinalizia delle prossime ore le ricopra inesorabilmente, consegnandole a quella parte in genere poco appassionante della Storia che si è soliti definire oblio.

Segue elenco:

         Democrazia interna al M5S.

         Libertà di voto e/o di dissenso dei parlamentari grillini.

         Prove di inesperienza – quando non di conclamata ignoranza – fornite da molti dei pentastellati circa le più elementari nozioni, non solo di diritto costituzionale, ma anche di banale prassi parlamentare.

         Scontro fratricida all’interno del Movimento tra i sostenitori dell’intransigenza tout court e quanti (a proposito: quanti?) avrebbero invece visto di buon occhio un Governo PD + M5S, articolato intorno agli ormai famigerati otto punti di Bersani.

         Disputa sulle buste paga del parlamentare grillino medio, il cui totale percepito, tra stipendio ed indennità, si colloca ben al di sopra di quanto annunciato ossessivamente dal Deus ex machina genovese in campagna elettorale.

         Inchieste sull’assenza di trasparenza finanziaria delle aziende riconducibili al Movimento, “Casaleggio Associati” in primis.

         Comportamenti ed epiteti oggettivamente poco nobili (ed intrisi di quel sessimo medievale e buzzurro che ci ha reso noti in tutto il mondo, al pari di Spaghetti, Mafia e Ferrari) che consiglieri comunali di Bologna hanno riservato alla loro collega ex-grillina Federica Salsi.

         Revoca del principio di turnazione dei portavoce Crimi e Lombardi.

         Altre minuzie varie (uffici stampa nominati e cancellati, troll e schizzi di merda d’ogni sorta, tweet in libertà, conoscenza approssimativa de “la costituzione più bella del mondo” and so on).

Ecco: tutto questo, grazie ad un formidabile baraccone comunicativo genialmente battezzato Elezioni quirinarie on-line, è stato, di fatto, completamente dimenticato.

Analizziamole, perciò, queste benedettissime quirinarie.

In primo luogo, non si è trattato di un voto, ma di un sondaggio al quale era possibile partecipare esclusivamente dopo aver fornito le proprie generalità; a livello informatico, ogni partecipante ha potuto esprimere la propria preferenza attraverso un Id ed una password che rendessero identificabile sia il votante che la preferenza stessa.

Nessun dato sulla partecipazione, nessuna conferma di acquisizione del voto.

E non solleviamo, per pura decenza, la questione legata al rispetto della privacy che questo meccanismo ha in nuce, soprattutto rispetto a chi, e come, effettivamente gestirà da qui in avanti questi dati.

Si è parlato di circa 48000 partecipanti; in realtà, nessuno può effettivamente sapere quanti siano davvero stati, giacché questo dato può essere fornito esclusivamente dall’amministratore di sistema. Quel che invece sappiamo per certo è che, nei tre giorni di quirinarie, il pacchetto di siti e pagine orbitanti intorno alla galassia “beppegrillo.it” si è attesto intorno ai tre milioni di contatti.

Nessuna società terza ha certificato il voto (il che è piuttosto ovvio dal momento che, come già chiarito, non si è trattato di un voto). La Casaleggio Associati, una azienda privata che si occupa di e-commerce, si è limitata a contattare una società di servizi, la DNV Business Assurance, la quale ha  sostanzialmente proceduto ad un controllo qualità in rete; tale controllo ha riguardato solo ed esclusivamente le policy del sito. Non si è proceduto a nessuna verifica di backoffice, ma esclusivamente ad un controllo esterno di sistema.

Non c’è stato nessun attacco hacker. La stessa DNV Business Assurance, incaricata di controllare ed analizzare il corretto funzionamento del software di gestione del sondaggio, ha ufficialmente dichiarato di non poter certificare alcun tentativo di hackeraggio. Nessun picco di accessi, nessun breakdown del sito, nessuna penetrazione di sistema, nessun messaggio; di fatto, nulla che possa far pensare ad un attacco esterno.

Quel che resta, al netto di ogni retorica possibile e di ogni evocazione di fantomatici nemici digitali, è dunque un sondaggio, in cui cinquantamila persone (forse) hanno espresso una preferenza circa quale potesse essere, per loro, il Presidente della Repubblica ideale; una rilevazione infinitamente meno interessante da osservare di un qualunque sondaggio di opinione condotto con credibili e certificabili criteri di analisi statistica.

Tanto per esser chiari, un qualunque Mannheimer (o Pagnoncelli, se preferite)  fornisce, settimanalmente, spunti di indagine assai più succulenti.

Certo, l’aver agitato lo spettro di un nemico esterno potente ed invisibile, un sabotatore oscuro, inviato dagli empi adepti della casta per distruggere la democrazia partecipata 2.0, panacea d’ogni male e garanzia conclamata di un glorioso Avvenire Digitale, in cui saremo tutti belli, felici e interconnessi, ha ricompattato in modo tanto formidabile quanto prevedibile la base del Movimento 5 Stelle.

Siamo, sostanzialmente, al sussidiario illustrato delle tecniche di comunicazione e di orientamento delle masse.

Alla ricerca del tempo perduto

8 Apr

Breve compendio inattuale di quel che il centro-sinistra italiano avrebbe dovuto e potuto fare negli ultimi 9 mesi.

Cominciamo dall’inizio.

Nel Partito Democratico si sarebbe dovuto permettere, attraverso elezioni primarie aperte e non subordinate a regole da nomenclatura nordcoreana, la rimozione della più fallimentare ed insieme inconcludente classe politica di centro-sinistra che la recente storia europea ci abbia consegnato. Non un primato da poco, a ben vedere.

Si sarebbe dovuta e potuta considerare l’ipotesi di stabilire un contatto, innanzi tutto dialettico, con tutti i settori della società italiana. Ipotesi, sia detto per inciso, tutt’altro che lunare, ed anzi consustanziale ai più elementari principi di democrazia partecipata.

Si sarebbe dovuto usare il linguaggio del pragmatismo e della trasversalità, giacché (com’è noto a chiunque abbia voglia di mettere il becco fuori dall’uscio anche solo una volta ogni tanto) una visione adulta, concreta e non stereotipata della realtà non può determinarsi rinchiudendosi all’interno dei propri recinti di riferimento, delle proprie arcaiche visioni di lavoro, società e politica, continuando stancamente a mutuare dal passato totem e idoli francamente incomprensibili, oltre che del tutto inattuali.

Si sarebbe dovuto e potuto capire, anche semplicemente basandosi sui dati empirici, che candidare un trentasettenne estraneo ad un organigramma di potere pluriventennale avrebbe rappresentato un elemento di attrattiva mediatico-elettorale formidabile (ma, prima di questo, si sarebbe dovuta considerare la capacità di attrattiva pop-mediatica come un elemento strutturale, positivo ed irrefutabile della contemporaneità, e non un orrendo prodotto del demonio capitalista), che avrebbe messo fuorigioco ogni ipotesi di ricandidatura di Berlusconi e di Monti, ed avrebbe scongiurato l’inverarsi di quel dato di fatto, ormai universalmente noto, per il quale in Italia, e non ci sono Apocalissi che tengano, un ex-comunista i voti non li prenderà mai.

Per quel che invece concerne non soltanto alla condotta del PD, ma anche a quella di ogni singolo, infinitesimale brandello costituente la smisurata galassia della sinistra italiana – e quindi anche tutti noi, in qualità di cittadini – si sarebbe dovuto e potuto smettere una volta per tutte con questo insopportabile snobismo per il quale ogni posizione diversa dalla propria è sempre ed inesorabilmente una visione sbagliata e corrotta, una visione da servi, da venduti, da sepolcri imbiancati. 

Si sarebbe dovuto cominciare a considerare che esiste, ad ogni latitudine e non soltanto all’interno del proprio elettorato di riferimento, gente per bene pronta ad ascoltare – sempre che, ovviamente, si abbia qualcosa da dire. 

Si sarebbe dovuto e potuto smettere con l’incomprensibile arroganza di chi sceglie di concludere la propria campagna elettorale chiudendosi in un teatro invece di aprirsi ad una piazza, e comprendere che chi ha votato fino ad oggi forze politiche diverse non è necessariamente un irrecuperabile coglione incapace di comprendere gli inestimabili progetti politici di un qualsiasi Bersani, Vendola o Ingroia, ma un interlocutore con cui confrontarsi.

E veniamo all’oggi.

E’ di tutta evidenza che la situazione di stallo attuale è, in massima parte, il prodotto dei sopraelencati errori di valutazione delle forze di sinistra e riformiste di questo Paese.
Ed è di altrettanta evidenza che le lapidarie parole di Matteo Renzi di qualche giorno fa, “stiamo solo perdendo tempo”, rappresentano semplicemente la fotografia della politica italiana delle ultime settimane. 

In questa situazione, con tre partiti bloccati da rispettivi veti incrociati ed un Quirinale depotenziato dall’avvento del semestre bianco (un evento non del tutto imprevisto, che certifica ancora una volta la proverbiale lungimiranza della politica italiana), il bivio che si presenta è chiaro ed ineluttabile: o Bersani si piega all’abbraccio mortale con il PDL, oppure certifica il proprio fallimento e quello del gruppo dirigente e dell’intera linea politica di cui è espressione, rimettendo il mandato affidatogli da Napolitano e chiedendo nuove elezioni il prima possibile, magari entro l’estate.

Al di fuori di queste due possibilità, il dato resta incontrovertibile: ogni procrastinazione (la si nomini pure con epiteti quali “consiglio dei saggi”, “convergenze parallele” o altre amenità linguistiche) rappresenta solo una perdita di tempo.