L’altro ieri, una trentina di agenti di polizia hanno manifestato nella piazza antistante l’ufficio comunale di Ferrara.
In quello stesso ufficio lavora Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi. Gli agenti si sono dati appuntamento per esprimere solidarietà ai loro quattro colleghi, condannati per l’omicidio dell’allora diciottenne studente ferrarese.
Alla vista del sit-in, Patrizia Moretti è scesa in strada in lacrime per mostrare ai manifestanti la fotografia del figlio morto ammazzato; i poliziotti hanno allora deciso di voltare le spalle alla donna e di abbandonare la piazza.
Tutti gli agenti in corteo erano membri del Cosip, il più importante e rappresentativo sindacato italiano di polizia.
Ora, voi non volete, in questa sede, una riproposizione delle polemiche che il fatto ha suscitato, né il rendiconto delle reazioni e delle contro-reazioni.
Quel che vi propongo è invece un esercizio di osservazione sistematica; guardiamoli in faccia, questi nobili servitori dello stato:
Una claque impietosamente di mezza età, berretti di lana a coprire calvizie incipienti, qualche pingue signorotta – fulgidi esemplari della piccola borghesia estense, capelli cotonati e foulard da mercato domenicale -, giacche a vento anonime su jeans lisi ferocemente demodè, e, a corollario, qualche floscia bandiera color verde smeraldo (eloquentemente para-leghista).
Il corteo è suddiviso in due capannelli ordinati ai lati dello striscione che dovrebbe rappresentare il sunto ideologico del corteo. Quest’ultimo, grossolanamente bi-cromatico, recita “La legge non è uguale per tutti, i poliziotti in carcere i criminali a casa”. E, più in basso, “solidarietà, amicizia, speranza, affetto per Luca, Paolo, Monica, Enzo”.
Dettaglio interessante: pur sapendo d’essere ripresi, i presenti ostentano la finta nonchalance di chi sembra non accorgersene: anni di somministrazione mediatica da pubblico televisivo li ha resi avvezzi alla nobile arte della posa: mai guardare in macchina, questo recita il primo comandamento del Vangelo secondo Beautiful. A riprova di ciò, due signori dall’aspetto anonimo si accucciano poco sotto lo striscione, evidentemente per permettere al fotoreporter di riprendere a pieno il messaggio ivi riportato; ricordano vagamente due giocatori di calcetto di una qualche squadra da dopolavoro ferroviario.
E poi, i volti: ecco, quei volti sono, significativamente, quel che ha attratto la mia attenzione da entomologo, e mi ha spinto ad ispezionare, con la stessa chirurgica foga di un sostenitore della vivisezione, ogni loro infinitesimale dettaglio (in)espressivo; quei volti esistono, e sono specificatamente ciò che ha fatto scattare in me la molla della curiosità morbosa: il desiderio di guardare dentro che mi pervade ogni qual volta un fenomeno di indignazione collettiva si dipana davanti ai miei occhi.
Ecco, in quei volti non c’è nulla che testimoni, o quanto meno adombri, la spietata, ottusa violenza dell’evento di cui sono stati attori.
Essi sono, propriamente, vacui.
Rappresentano, in chiave postmoderna, il profilo rubicondo, irriducibilmente provinciale ed insieme tragico (di quel senso della tragedia che non ha nulla di pre-dialogico: un tragico imploso ed estenuato giacché inevitabilmente mediatizzato, un tragico meta-contemporaneo e, potremmo dire, concettualmente assimilabile al ridicolo) di un “Eichmann a Gerusalemme” de’ noantri.
Si dirà: evocare Arendt è fuori luogo.
Eppure, se è vero che, quantomeno in una prospettiva aristotelica, l’aspirazione alla verità è la nota che più d’ogni altra contraddistingue la ricerca filosofica” (cit.), allora la gnoseologia de “La banalità del male”, che non propone ragioni o teorie ma unicamente lezioni, qui può davvero venirci in soccorso (ok, le articolazioni infinite della teoria della conoscenza e bla bla bla, ma, insomma, non è davvero questa la sede), specificatamente rispetto al concetto, fin qui solo evocato, di assenza di profondità.
Cito testualmente: “La causalità, cioè il fattore di determinazione di un processo di eventi, in cui un evento sempre ne causa un altro e da esso può essere spiegato, è probabilmente una categoria totalmente estranea […] nel regno delle scienze storiche e politiche”.
Ed è proprio questo il punto: nell’atto di manifestare solidarietà verso quattro assassini, nel farlo in qualità di rappresentanti dello Stato, e, somma ingiuria, nella scelta infame e deliberata – DELIBERATA – di farlo davanti gli occhi della madre dell’assassinato, per quanto ci si sforzi, non è possibile rilevare alcuna relazione o causalità; nessuna chiave risolutiva o risposta che abbia a che fare con il comportamento, la provenienza o l’esperienza.
L’unica lezione possibile, se c’è, è nella (ab)normalità di quell’orrore, nel “vuoto” insieme logico e speculativo di quei volti, epigoni luminosi e a loro modo irripetibili dell’aberrazione di una violenza insieme impunibile ed imperdonabile.
“Non era stupido, era semplicemente senza idee. Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee, possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo”. A.H.
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