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Giù le mani da Simone Weil!

15 Mar

Personalmente, trovo insopportabile l’operazione di ascrivere, a suffragio o nobilitazione delle proprie tesi, pensieri e scritti di intellettuali del passato.

Le ragioni di questa mia personale idiosincrasia sono essenzialmente due: 1) il più delle volte si tratta di operazioni filologicamente parziali, quando non del tutto strampalate; 2) l’intellettuale di turno, solitamente trapassato, non può, giacchè cadavere, sfilarsi via dall’ascrizione di cui è vittima, e altrettanto difficilmente può ritrovarsi nella posizione di rimbrottare il citatore manigoldo con un “eh no caro mio, io nn intendevo questo” (quest’ intellettuale lo si immagina solitamente in un riposo accigliato, al riparo dalle mondane facezie sotto tre metri di terra, in un qualche cimitero monumentale di una qualche capitale europea. Oppure in una fossa comune, musiche di Wolfgang Amadeus Mozart e regia di Gus Van Sant, il che, a ben vedere, non fa una gran differenza).

 

Insomma, il morto, per sua natura, non può ribattere, né mandarti a quel paese dandoti dell’ignorante o del paraculo.

Suddetta impresa, che è sovente prova inconfutabile di fragilità intellettuale, dev’ essere invece cagione di gran divertimento per Beppe Grillo, il quale, dopo essersi indebitamente appropriato del pensiero di alcuni economisti contemporanei ( Fitoussi, Stiglitz ) ed esser stato da loro clamorosamente smentito – ahilui, con i vivi il giochino spesso non riesce -, ha ben pensato di allungare le sue manone paffute su Simone Weil, con il proposito di farne una bandiera dell’antipartitismo.

Il tutto nasce da uno scritto della filosofa francese, dal titolo Manifesto per la soppressione dei partiti politici, inopinatamente citato qualche settimana fa sul blog del Conducator.

Ora, non mi dilungherò sul pensiero di Simone Weil, la cui formidabile intransigenza intellettuale non ha eguali nel pensiero del Novecento europeo (vi prego di credermi: la signora avrebbe fatto polpette dell’intero impianto pseudo-ideologico del grillismo con una sola alzata di sopracciglio), limitandomi esclusivamente ad alcune considerazioni sul saggio in oggetto.

Quel che, nel Manifesto, Weil critica aspramente è l’impianto giacobino-staliniano del partito, il cieco obbedire al volere del Capo, l’osservanza priva di discerimento alle indicazioni del Partito-Chiesa, l’assenza negli iscritti dei più elementari principi di libertà e giustizia individuali, la rinuncia ad ogni forma di critica e/o vaglio rispetto alle indicazioni che dall’alto vengono imposte.

C’è dell’altro? Ovviamente si: l’autrice, nel pamphlet, dà voce al suo più grande timore, vale a dire il fuoco della demagogia: quel pervicace ed inestirpabile desiderio proprio d’ ogni forza politica di istillare nelle folle, attraverso la retorica di imperscrutabili disegni palingenetici, un insieme di tumultuose ed eccezionali reazioni.

E, per carità, non rispolveriamo Gustave Le Bon.

Ecco, cari grillini: a buon intenditor, poche parole.

Oscar, Philip Roth e il desiderio

21 Feb

Ancora qualche considerazione riguardante l’affaire Giannino.

Preliminarmente, una precisazione doverosa. In Accountability ho parlato di colpe veniali imputabili al leader di Fare; ho scritto il pezzo immediatamente a ridosso dei primi lanci di agenzia, nei quali si parlava esclusivamente di una specializzazione linguistica, conseguita alla Chicago Univesity, in luogo dell’ormai famigerato master.

Avrei forse dovuto attendere gli ulteriori sviluppi della vicenda, ed essere meno frettoloso nel redigere l’articolo. Con ogni evidenza, aver mentito non solo su master mai conseguiti e fantomatiche specializzazioni linguistiche, ma anche su altri fantasiosi titoli accademici, ribalta completamente la prospettiva sulle responsabilità di Oscar Giannino, sottolinea ed illumina, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’aspetto doloso della faccenda, e lo inchioda, in qualità di uomo pubblico, ad una serie di errori gravi e dunque, inevitabilmente, fatali.

Ciò detto, resta immutato l’interesse, e per certi versi il fascino grottesco, che questa storia suscita sul piano sociale e antropologico.
Forse ha ragione Gad Lerner. Quando parla di “una debolezza culturale che non è solo dell’uomo Giannino ma di tutto il suo ambiente. Quei signori lì sono soggiogati dal dovere di essere laureati, altrimenti in Confindustria ti guardano dall’alto in basso”, mentre Andrea Mollica evoca il superego degli economisti, denunciando un indiscutibile clima di subalternità culturale.

Tutto vero e sottoscrivibile, per carità.
Eppure, a mio parere, si dimentica quello che è forse l’aspetto più profondo, il profilo umano, troppo umano dell’ intera vicenda. Vale a dire, il desiderio ossessivo di appartenere ad una elite, l’urgenza morbosa di riconoscibilità intellettuale di chi, nato in una delle mille periferie operaie italiane dei primi anni sessanta, brama riscatto. Primus inter pares affamato d’ammirazione, giacchè, proprio dall’ammirazione per quel Rotary sacrale è irrimediabilmente soggiogato; distante anni luce all’odierno esserci per apparire figlio della tv commerciale, proliferante nullologi assurti a rango di stars venerate (Garrone, Reality), quello di Giannino è il desiderio di esserci per contare.
E, ça va sans dire, il brillante curriculum accumulato in trent’anni di giornalismo, in veste di professionista autorevole, controverso e competente, non avrebbe mai potuto valere, per lui, come risarcimento, nè surrogare quel desiderio di malriposta eccellenza.

Osacar Giannino è Coleman Silk, lo stimato professore di lettere antiche, l’uomo che si sbarazza delle sue origini e inventa da zero la propria vita, il personaggio protagonista de La macchia umana di Philip Roth.
Per Silk la consapevolezza della propria bravura, lo status raggiunto in una vita trascorsa al vertice della piramide del sapere americano e l’ammirazione di studenti e colleghi, semplicemente, non basta. Non può compiacersi della prossimità con quel gotha accademico – moralista, ipocrita, eppure irresistibilmente attraente; il biasimo che prova verso se stesso e le sue origini non può essere soffocato, la sua intera esistenza tende al conseguimento della pura identità con quel sistema che lo vorrebbe, altrimenti, escluso per nascita.
Sia chiaro: Coleman Silk, eroe tragico per eccellenza, è davvero colpevole; razzista e bugiardo, subisce, per contrappasso, la punizione che merita. Ma la sua espiazione non corrisponde affatto ad un principio di giustizia universale, la quale, naturalmente, mai si invera nella fattualità del mondo.

Un’ultima annotazione, questa volta squisitamente politica.
Nessun dubbio sul fatto che la credibilità dell’ex giornalista sia ormai, per dirla con le stesse parole del protagonista, “irrimediabilmente distrutta”; tutt’altro discorso vale invece per la credibilità di Fare, che esce da questa brutta storia fornendo una immagine di se perfettamente coerente con i principi etici propri di ogni partito europeo che si rispetti, attenendosi a prestabiliti meccanismi di governance interna coerenti e scrupolosi, e perciò del tutto lunari rispetto agli standard cui siamo abituati nel Belpaese.
Vale la pena ricordare che l’intero scandalo è esploso grazie alla denuncia di Luigi Zingales, autorevole membro di quello stesso partito (per inciso, il tutto a soli quattro giorni dal voto,un tempismo elettoralmente sucidia ma che la dice lunga sull’idea di accountability che si respira a quelle latitudini), e che, in 24 ore, Fare ha convocato un congresso, destituito Giannino del suo ruolo di Presidente ed eletto al suo posto Silvia Enrico in qualità di Coordinatore Nazionale.
Lo stravagante ex candidato premier ha inoltre dichiarato che rinuncerà comunque al seggio (qualora il partito raggiungesse la soglia del 4% necessaria ad entrare in Parlamento), lasciandolo a disposizione della segreteria del partito.

Un considerevole esempio di coerenza kamikaze, soprattuto perchè, decapitato Giannino, e nullificata così l’attrattiva pop carismatico-leaderistica che la figura dell’ex giornalista esercitava su quel potenziale elettorato, l’ingresso in parlamento di Fare è, ad oggi, una prospettiva del tutto chimerica.

Ci si aggiorna a dopo le elezioni; che il week end doni requie e consiglio ad ognuno di noi.

Accountability

20 Feb

Una brutta storia quella di Oscar Giannino e del suo finto Master alla Chicago University.

Non tanto per il merito della faccenda -si tratta, in fin dei conti, di una ingenuità piuttosto veniale- quanto per ciò che rappresenta: l’ennesima riproposizione di quel vizio maledettamente nostrano di millantare crediti di cui non si dispone.
L’ immagine, ormai tristemente nota soprattutto a livello internazionale, di un popolo di cantastorie e saltimbanchi, di soldati fanfaroni con medaglie di latta appuntate al bavero, di venditori di fumo affetti da inestricabili complessi di inferiorità, di schettini impomatati, di scolari sempre un po’ ripetenti e stropicciati, strutturalmente incapaci anche solo di tradurre nella propria lingua madre quel termine, accountability, che è prerequisito indispensabile in ogni contesto politico maturo, e che qui veste invece i panni logori di una parodia bella e buona, in un teatro di pupi e marionette, di pulcinella che si scherniscono a vicenda e, nell’aria, un sottofondo di pernacchie a corollario.

Ed è doppiamente triste che questo virus non abbia risparmiato nemmeno il leader di Fare, neonato partito ultraliberal che, per dirla con le parole di Sabatini, “fa del merito e della trasparenza due dei suoi principali cavalli di battaglia”.

Certo, osservare come le truppe cammellate al soldo dell’ Inqualifiable par excellence stiano cavalcando la notizia a quattro giorni dal voto, fa sorridere. Come se il ducetto lampadato non avesse rappresentato per vent’anni, formidabile e ineguagliato, il prototipo di italiano inaffidabile, marpione, corrotto e furbastro, esportando quel modello per l’intero orbe terracqueo  coprendosi di ridicolo, quando non di biasimo, praticamente a qualunque latitudine.
E, cosa ancor più grave, come se non avesse trascinato in quel biasimo ed in quel ridicolo, anche tutti noi.

E’ la campagna elettorale, bellezza.

Piccoli leader crescono

11 Feb

Ladies and Gentlemen, eccola: ineluttabile ed eternamente identica a se stessa come ogni tradizione che si rispetti, l’aspirazione monocellulare dei partiti che compongono la sinistra italiana s’aggira nuovamente tra noi.

Anche quest’anno, all’approssimarsi del voto, l’eterno ritorno di questo multiforme, corpuscolare, partenogenetico insieme di anime riprende vita; anime immancabilmente inconciliabili, anime categoriche, inamovibili, intransigenti e monolitiche nelle loro impalpabili differenze – e tuttavia, ad ascoltare questi titolatissimi portavoce che le rappresentano e incarnano, anime indispensabili, di più, anime preziose, arricchenti, financo decisive per il futuro e la felicità di noi improvvidi mortali.
Sia detto per inciso, su questa coazione a ripetere, che sintetizza tempismo suicida e autismo da rilevazione demoscopia, dovrebbero cominciare a interrogarsi autorevoli esponenti della scuola lacaniana.

Niki Vendola, cresciuto politicamente in grembo al settarismo bertinottiano, e per anni autorevole esponente di quella ortodossia inflessibile che consegnò già una volta l’Italia al mastino di Baskerville, fornisce, di questa disgregazione, una peculiare ed originalissima spiegazione di carattere storico-antropologico.
Segue lectio.

“C’é una brutta storia nella sinistra: un riverbero dello stalinismo, che cercava i nemici tra quelli che ti sono più vicini. Io non ho alcun sentimento negativo nei confronti di Ingroia, Di Pietro, Ferrero, Bonelli…[…] non ho nessuna voglia di vivere questa campagna elettorale come un ping pong polemico nei loro confronti”.

Ora, tralasciando lo stalinismo, i riverberi, il ping pong, e tutto l’armamentario voluttuario della retorica vendoliana, resta il fatto che a quelle latitudini continuano a volare stracci con cadenza giornaliera.
Il punto, comunque, è un altro: se si prova a sbirciare davvero dentro questi partiti-monade, dentro questi manualetti mal redatti di etica nicomachea, salta immediatamente all’occhio che, tra la purezza delle premesse e la compilazione delle liste elettorali, non tutti i conti tornano.

Tanto per dirne una, Rivoluzione Civile, che trova nell’avversione al PDL costituente e primigenia ragione d’esistenza, e che, ad ogni piè sospinto, rivendica la propria natura rigorosamente apolitica – la fantomatica ed impalpabile società civile, espressione abusata ed evocativa, benché semanticamente e concettualmente priva di qualsivoglia senso – candiderà numerosi esponenti politici di lungo corso, vecchi lupi di Transatlantico già piazzati in lista in posizioni strategicamente apicali, pronti a tornare in pista dopo un bagnetto purificatore nel battistero dei movimentisti arancioni.
Tra i predetti molossi pronti alla catarsi, al momento acquattatisi sotto il mantello lustrale di Ingroia, si staglia, fiera e disdegnosa, la figura di Oliviero Diliberto; ex PCI, ex Rifondazione Comunista, ex Comunisti Italiani, ex Sinistra Arcobaleno, oggi capolista per il Senato in Emilia Romagna proprio con Rivoluzione Civile.

Ecco, giusto di passaggio e giusto per puntiglio, val la pena ricordare a tutti gli appassionati cacciatori di peccati originali di cui abbonda l’elettorato di sinistra, che Diliberto fu Ministro di Grazia e Giustizia nel governo D’Alema, e in quegli anni sottoscrisse, in qualità di autorevole membro di quell’Esecutivo, scelte di memorabile acume politico – cogliendo fior da fiore, la procedura di acquisto dei tanto vituperati F-35, avviata nel 1996 da Prodi, fu ratificata due anni dopo proprio dall’esecutivo D’Alema.

Ciliegina sulla torta di una stagione da ricordare, Diliberto affiancò in Parlamento persino Lamberto Dini, all’epoca anch’egli Ministro alla corte del Lider Maximo, ed oggi inamovibile Senatore del Popolo delle Libertà e strenuo sostenitore del Berlusconi VI.

Ad ogni modo, e con ogni evidenza, queste son tuttavia null’altro che piccolezze; cronache frastagliate di esperienze politiche più o meno irrilevanti, dettagli di colore, gustosi finché si vuole ma che eludono il senso generale, sfocando il punto di vista su quanto è essenziale. E l’essenziale è che a sinistra si sta procedendo con l’ennesimo esercizio di contemplazione del proprio ombelico e con relativa superfetazione di leader piccoli piccoli – giacché, curiosamente, il leaderismo è un deprecabile residuo dell’ideologia borghese solo quando esprime percentuali a due cifre, e diviene, d’incanto, riprova di plurali auliche sensibilità in presenza di voti da assemblea condominiale.

Nel frattempo il Ceausescu brianzolo ha già recuperato sei punti percentuali nell’ultimo mese, il PD ne ha persi ben quattro, e al voto mancano appena due settimane.

È, a ben vedere, l’annosa quaestio del deficit da memoria breve che si mischia al masochismo iterato compulsivo, patologie entrambe ben presenti nella mappatura genetica dell’elettorato di sinistra italiano. Ancora qualche palpitazione massimalista, un de Magistris descamisado, un Ingroia affannosamente contro tutto e tutti, un’altra agenda rossa sventolata, qualche altra copia del Fatto, e, di colpo, le immagini del recente passato scompariranno del tutto.
Svanirà il ricordo di Maria Stella Gelmini in compagnia dei suoi neutrini, svanirà l’aberrazione omofoba di Giovanardi e i post-fascismi in salsa nazionalpopolare, la truppa di mignotte, nani, maschere e lacchè, la Lega a Montecitorio e i Belsito in Finmeccanica, svaniranno le risatine della Merkel, lo spread a 600 punti base e scusatemi, ma devo fermarmi qui, o farò di questo pezzo una Messa cantata.

Speriamo davvero di non dover comprare, la mattina del 26 febbraio, un biglietto aereo di sola andata.

Buchanan

31 Gen

Il 9 gennaio 2013 si è spento James Buchanan, uno dei più grandi economisti del XX secolo, fondatore della scuola della public choice e Premio Nobel per l’economia nel 1986.

In quella che viene universalmente considerata la sua opera più importante, Il Calcolo del Consenso, fondamenti logici della democrazia costituzionale, Buchanan elabora la teoria della scelta pubblica in economia e scienza politica, concentrando la sua analisi sulle dinamiche di organizzazione politica di una società libera.
Pubblicato nel 1958, e scritto con la collaborazione di Gordon Tullock, Il calcolo del consenso si impose, già nell’approccio metodologico, come un testo rivoluzionario; per la prima volta, lo studio delle dinamiche di relazione dei soggetti che operano in ambito politico venne condotta esclusivamente attraverso gli strumenti propri della scienza economica, estromettendo di fatto qualsivoglia criterio sociologico e di scienza sociale classicamente intesa.
Tale prospettiva fornì Buchanan degli strumenti necessari a condurre un’analisi positiva, focalizzata cioè sulle dinamiche che effettivamente orientano le scelte politiche, e non, come prassi aveva suggerito fino a quel momento, su come quelle stesse dinamiche avrebbero dovuto o potuto determinarsi.

In tempi confusi come questi, in cui l’adesione a dottrine economiche opposte tra loro (quando non contraddittorie o strampalate in se) sembra rispondere più a logiche esoteriche e parafideistiche che non a criteri scientifico-economici, ripercorrere, anche solo per sommi capi, i punti chiave della Public Choice, rappresenta un formidabile rimedio contro imposture d’ogni ordine, grado e provenienza.

L’ispirazione fondamentale, che Buchanan prese da Wicksell, è che “gli economisti dovrebbero piantarla di offrire consigli di policy come se si rivolgessero ad un despota benevolo, e dovrebbero invece analizzare la struttura in cui le decisioni politiche vengono prese”.
In altri termini, la teoria della scelta pubblica rifiuta il principio, indimostrabile per ontologia, secondo cui gli uomini politici d’ogni livello possano esser considerati come “benevoli monarchi illuminati”, e che tali amorevoli demiurghi si prefiggano, come missione, il conseguimento dell’interesse collettivo.

Gli agenti politici compiono scelte di carattere economico volte al conseguimento dei propri interessi e alla soddisfazione dei propri bisogni, mentre l’interesse pubblico è e resta pur sempre l’interesse privato di gruppi qualificati.
Ne è logica conseguenza che “gli elettori sosterranno candidati e proposte politiche che pensano possano realizzare il loro interesse personale, i politici cercheranno di essere eletti o rieletti a cariche pubbliche, i burocrati si sforzeranno di favorire la propria carriera”.

L’humus in cui si sviluppa il pensiero di Buchanan è, evidentemente, quello dell’individualismo metodologico dei neoclassici, declinato però in una prospettiva normativa che non può che definirsi morale; un approccio sensibile ai temi dell’etica, delle differenti concezioni di giustizia e diritto, che pone l’accento sull’importanza ineluttabile delle regole del gioco, ritenendo che gli attori della sfera politica siano mossi essenzialmente da propositi di massimizzazione dell’utilità.

Che siano, insomma, attori razionali guidati da interessi egoistici.

L’economia di Buchanan è dunque una scienza umana – umanistica? – che diffida della matemazzitazione della disciplina e delle sue contrapposte ortodossie teoriche, dei modelli di equilibrio generale e delle misteriose definizioni degli agenti economici.

Certo, lasciare che le teorie economiche di Buchanan ed il “vorrei volere” agostiniano si sfiorino è operazione ardita; un canone che, nei rimandi delle sottrazioni e delle aggiunte, si fa rischioso.
Forse è solo un volo pindarico sottilmente degenerato, l’espressione di un pensiero debole che finisce inevitabilmente per presupporre il Pantheon, per desiderarlo già nell’istante stesso in cui lo pensa, in forma e nelle modalità del più spericolato spirito postmododernista.

O, più probabilmente, è soltanto la riproposizione di un inestirpabile vizio del nostro tempo, ingenuo ed umanissimo; quello di non rassegnarci, come occidentali, ad una prospettiva orizzontale dell’esistenza, di non rinunciare alla messa in mora d’ogni relativismo, di non riuscire, insomma, a chiudere davvero i conti con la morte della metafisica e la conseguente nascita della contemporaneità.

All’inizio, come sempre, colpisce il grottesco.

28 Gen

Nell’ennesima storiaccia di violenza esplosa in seno al movimentismo neo-fascista italiano, tra un volantino e un megafono – voce rauca e lacrime agli occhi –, nei documenti sequestrati dagli agenti della Digos e nelle fotografie impettite dei militanti, prima di tutto, inevitabilmente, affiora il grottesco.

Non dovresti ghignare.
Mentre le labbra non obbediscono al tuo senso etico (non lo fanno mai) e si schiudono, labbra impudenti già atteggiate al riso, sai che stai commettendo un grave errore, il primo passo verso un’indulgenza ammantata di pretesa superiorità intellettuale – quella stessa pretesa superiorità intellettuale che, da almeno tre secoli a questa parte, travestita da lume della ragione, ha prima sottovalutato e poi giustificato ogni genere di violenza.
Eppure.

Eppure non riesci a non sorridere di quella retorica neo-coloniale da Istituto Luce, dei soprannomi evocativo-finto-arcaici, della “ducessa”, della “Legione Opicina”, della Storia ridotta ad aneddotica semplificata, del povero Celine usato come piede di porco, dell’ “hic manebimus optime” che, da Tito Livio ad Eugenio Montale e Gabriele D’Annunzio, oggi dimora nella celebrazione sgrammaticata dei comizietti di questi Iannone da strapazzo.

Poi, certo, la paura e la preoccupazione.

Il Mein Kampf nelle sezioni, l’oltraggio come prassi, i coltelli, le spranghe e le molotov, il negazionismo, l’indottrinamento all’odio razziale, lo squadrismo del terzo millennio dei fascisti del terzo millennio – un trionfo ossimorico, a ben vedere – le intercettazioni telefoniche in cui si parla di soggetti appartenenti a “tribù diverse” da annientare e distruggere, in una evocativa riproposizione del più retrivo arcaismo culturale, fino, ed è notizia di queste ore, alla teorizzazione dello stupro punitivo, sfregio infamante e vigliacco, doppiamente vigliacco nell’ aberrazione di un disegno razionale e spaventoso e nell’ingiuria di un linguaggio brutale – purissima semantica trivialità.

Infine, è un dettaglio a colpire.

Il particolare che elude il generale, lo riveste e lo illumina.
Tra le fotografie degli arrestati, spicca quella di Emanuela Florino, giovane leader dell’estrema destra napoletana, candidata, nella prossima tornata elettorale, proprio nelle liste di Casapound.
Florino è un cognome che pesa nella storia della destra italiana: Michele, padre di Emanuela, fu parlamentare del MSI già nel 1984. Senatore della Repubblica dal 1987 al 2001 (quattro legislature, prima nel MSI, poi in AN), attualmente milita ne La Destra di Francesco Storace.

E’ un lampo che squarcia il buio, calato per un attimo su quest’orgia di retorica da due soldi; il racconto di cupa violenza, l’ennesimo, ci ha offuscato lo sguardo, sottraendo alla nostra attenzione una macroscopica ed inestirpabile peculiarità italiana.
Un tratto vivido che, di colpo, accomuna i neonazisti punk del ricco nordest, le curve dei nostri stadi vuoti, i giovani nei licei della Roma Bene e tutto quell’universo millesimato di inni, motti e saluti romani, sotto l’effige immortale del familismo italiano, del cognome del Padre, che conta e torna buono, e con cui deve necessariamente fare i conti persino la sedicente “destra dal cuore puro” (eccome, visto che le liste senza i voti non sono granché utili), con buona pace delle sue intransigenze declinate un tanto al chilo.

Siamo, di colpo e ancora una volta, catapultati in un romanzo di Sciascia, o in un film di Monicelli – anzi di Virzì, ché Monicelli è già poesia –, musiche di Rustichelli, fumo di sigaretta in sala, e la giovane protagonista che gioca alla rivoluzione nera, mentre il papà – un Sordi gaglioffo, direi – gongola ripensando ai bei tempi delle sprangate di gioventù.

Forse, alla fine del Tempo, quel che ci salverà sarà il nostro infinitesimale senso del ridicolo.